Oggi è il Giorno della Memoria, e quest’anno, nel clima mondiale di ritorno di sciovinismo e intolleranze, sembra essere più sentito del solito. Probabilmente perché molti sopravvissuti ai campi di sterminio sono anziani e il rischio di perdere la memoria si fa più acuto e penetrante, e perché c’è una tendenza sottile e strisciante a minimizzare la condizione di vittima degli ebrei. Non tutte le vittime erano ebree, ma tutti gli ebrei erano vittime, per usare le parole di Elie Wiesel.
Le parole sono importanti. Le parole definiscono la nostra comprensione del mondo. Quando diciamo Shoah, come si legge in apertura del bel WebDoc di RAI Cultura dedicato a questo tema, ci riferiamo allo sterminio del popolo ebraico perpetrato dai nazisti, che furono il bersaglio principale dei carnefici. I numeri sono evidenti: sei milioni di ebrei morti, qualcuno dice di più.
Ci furono altri stermini perpetrati nei campi, con altrettanta ferocia e soprattutto pianificazione sistematica, oserei dire scientifica. L’omocausto, vale a dire l’olocausto degli omosessuali, il silenzio assordante dei triangoli rosa. Ricordo l’emozione di sedermi in riva al canale dell’Homomonument, significativamente vicino alla casa di Anna Frank, ad Amsterdam, quando arrivai in città nel 2014. Lo sterminio di rom e sinti, detto Porajmos (“devastazione”) o Samudaripen (“tutti morti”). Furono perseguitati anche i pentecostali. L’esperanto, in quanto lingua progettata da un ebreo, Ludwik Lejzer Zamenhof, era considerata una lingua pericolosa, e gli esperantisti furono perseguitati in quanto tali. E magari ne ho dimenticato qualcuno. Me ne scuso. La memoria non è un oggetto fisso, è dinamica, va coltivata. Non si smette mai di imparare a ricordare.
Lo sterminio degli ebrei è stato quello primario. Se usiamo il termine ebraico Shoah, ci riferiamo specificamente allo sterminio ebraico. Va ricordato parimenti che ce ne sono stati altri. Non possiamo chiamarlo ‘olocausto’, perché il termine classicamente significa ‘offerta sacrificale a Dio’. Io non sono credente, ma questo non vuol dire che sia giustificato a offendere i credenti. Trovo il termine ‘olocausto’ usato in questo modo offensivo per la loro sensibilità. Ripeto, le parole sono importanti. Soprattutto su un tema così delicato.
L’unico termine ombrello che trovo adeguato è sterminio. Indica con precisione quello che è avvenuto a tutti i prigionieri nei campi, che per l’appunto non erano ‘di concentramento’, erano ‘di sterminio’.
Questo articolo intende fornire qualche indicazione utile per i laureandi di area umanistica che si accingono a preparare la discussione di tesi, sulla base della mia esperienza di relatore di tesi a Scienze Linguistiche presso l’Università di Torino. A Scienze Linguistiche c’è una consuetudine a preparare handout anziché presentazioni, e spesso i laureandi non hanno alcuna esperienza pregressa nella preparazione di questo tipo di documento.
La prima buona notizia è che un handout, se fatto bene, è più efficace di una presentazione. Se non ci credete, consiglio il gustoso quanto intelligente The Cognitive Style of Power Point del maestro indiscusso dell’infografica, Edward Tufte. Il suo libro The Visual Display of Quantitative Information dovrebbe essere reso obbligatorio in tutti i corsi di laurea, non solo di area umanistica, ma ancor di più di area scientifica. Vale la pena di riportare le sue parole:
Give everyone, always, a paper handout: a preprint, a reprint, an 11 by 17 piece of paper folded in half. You want to leave traces by providing high-resolution materials that live beyond the moment. Posters, which are usually read at a distance, tend to be low resolution (like slides). Real science is high-resolution; use high-resolution methods of presentation.
Un handout, detto anche thesis statement in alcuni contesti accademici, è un breve documento che presenta i punti essenziali del lavoro del laureando, a partire dall’ipotesi per arrivare alla tesi, evidenziando il percorso effettuato nel mezzo. La buona notizia per il laureando è che il lavoro è già stato fatto, si tratta solo di presentarlo adeguatamente.
Innanzitutto, per cortesia accademica, verrà fornita una copia per ciascun membro della commissione giudicante, non solo relatore e correlatore, quindi si pensi al numero di copie da stampare in anticipo. Quando il candidato verrà chiamato, chiederà il permesso di dare una copia a ciascun membro della commissione prima di sedersi e dare inizio alla discussione stessa.
Nell’intestazione, il candidato avrà cura di scrivere il proprio nome e cognome, il titolo della tesi e la data della discussione. L’handout deve contenere pochissimo testo scritto, per evitare che i commissari leggano l’handout e così facendo non ascoltino il discorso del laureando stesso. L’informazione scritta principale dev’essere per l’appunto l’ipotesi e la tesi.
Facciamo un esempio.
Dall’handout della tesi di laurea di Laura Vardeu, discussa il 10 novembre 2015 a Torino, dal titolo: “A noi il sardo te lo imparano i tuoi genitori e l’italiano a scuola”. Una sperimentazione linguistica in Sardegna:
Obiettivi : 1) utilizzare il sardo come lingua veicolare in orario curricolare per apprendere nuovi contenuti disciplinari 2) sperimentare le norme linguistiche per il sardo scritto (LSC) e valutare se fossero utilizzabili in ambito didattico o se, al contrario, suscitassero pulsioni micro- campanilistiche e sentimenti di rifiuto.
Se avete letto il titolo e gli obiettivi della tesi (che coincide con l’ipotesi), dovrebbe essere sufficiente a capire di cosa trattava il lavoro. Leggete ora la conclusione dell’handout, che vi riporto qui di seguito:
La standardizzazione del sardo non può venire unicamente dall’alto ma bisogna tenere conto dei suoi utenti privilegiati:
– sperimentare sistematicamente la LSC nelle scuole.
– estendere la ricerca al sud dell’isola; le eventuali reazioni negative degli studenti meridionali, lungi da compromettere l’introduzione della LSC a scuola, potrebbero essere un’occasione per apportare alcune modifiche e rendere la lingua scritta maggiormente adatta alle esigenze dei parlanti.
Avete capito in sintesi la tesi, senza leggere il riassunto, non è così?
(Per gli interessati, il riassunto, in italiano e in inglese è qui, nel brutto sito web dell’Ateneo torinese che archivia le tesi per il pubblico).
Ecco il punto: il riassunto non serve per spiegare la tesi. L’informazione testuale la date voi con la vostra presentazione orale, in carne e ossa.
E quindi: cosa va inserito nel mezzo? Semplice: informazione grafica ben fatta. Tabelle, esempi glossati, alberi sintattici, o grafici veri e propri andranno benissimo. Copiate e incollate dalla tesi. Ricordate: l’informazione grafica contiene pochissima informazione testuale.
Da evitare assolutamente le citazioni — alla commissione interessa il lavoro del candidato, non cosa ha detto Ferdinand De Saussure o Noam Chomsky (per dire), per quanto pertinente e autorevole possa essere. Ciò vale sia per l’informazione testuale che per quella grafica. Esempio: non inserite un grafico riportato dalle fonti, ma un grafico che avete fatto voi.
La lunghezza ideale di un handout è due facciate, recto e verso di un singolo foglio A4. Se i colori hanno significato, per una volta fate l’investimento e stampate a colori. Se sono decorativi, stampate in bianco e nero. Anzi: aprite la vostra tesi e toglieteli. Non servono. Se proprio dovete fare un handout più lungo, pensatelo come un libro aperto: prima pagina singola, poi si apre, e le pagine due e tre sono una di fianco all’altra.
Vi chiederete quali tipi di carattere, margini, interlinea… La verità? Se mi avete seguito fin qui, avrete capito che si tratta soli di dettagli. Ma io so che voi insistete per avere delle dritte. Riporto una pagina estratta dal libro già citato in precedenza:
Fonte: Mini Tufte, a sua volta una collezione di estratti da The Visual Display of Quantitative Information
Naturalmente, per gli utenti LaTeX, esiste un package ispirato all’opera di Edward Tufte, con uno foglio di stile per handout e uno per i libri. Uso il package da qualche anno per scrivere le Lecture Notes del corso di interlinguistica all’Università di Amsterdam, mi trovo benissimo (per chi fosse interessato: non necessita di XeLaTeX).
Ne incollo qui sotto un estratto.
Va da sé che l’estratto non proviene da un handout, ma da un libro — se mai lo pubblicherò. Lo condivido — con i margini del foglio A4 in evidenza — per mostrare che anche gli spazi bianchi sono portatori di significato.
In altre parole: non affastellate il vostro handout di informazioni, ci siete voi a spiegare! Può essere utile mettere i numeri di pagina della tesi sotto l’informazione grafica che riportate da quest’ultima, così — se serve — potete facilmente trovare da dove avete preso le informazioni.
In una indubbia situazione di stress adrenalinico quale la discussione di laurea è, ve lo consiglio. In bocca al lupo!
Pubblicato su Facebook, a seguito della condivisione sul profilo ufficiale della Federazione Esperantista Italiana (FEI) dell’immagine riprodotta in fondo, con la didascalia: ‘Articolo su l’Esperanto di Libero Quotidiano del 23-12-2019.’ Senza commento alcuno. Bastava aggiungere: “Le posizioni dell’autore non necessariamente coincidono con quelle della Federazione Esperantista Italiana” e la FEI avrebbe evitato una figuraccia, secondo il mio immodesto parere.
Per la serie: parlate male di noi, basta che ne parliate. Non ho mai letto tante sciocchezze sull’esperanto in una volta sola, e mi limito a quello che mi risulta visibile da questa immagine sgranata. E vi assicuro che dalla fine degli anni 1990 ne hanno scritte sui giornali italiani di scemenze, sull’argomento. Ce ne voleva per superarle.
Notate la metonimia ‘esperanto’ per ‘esperantisti’ (o, meglio, esperantofoni) nel titolo. Orbene, cultori dell’esperanto che sperano di battere l’inglese, io, non li vedo proprio. Chi impara l’esperanto lo fa perché trova qualcosa nella lingua che altrove non trova. Né nell’inglese, né nel cinese, né nel catalano, né nel klingon (sono i primi esempi che mi vengono in mente). L’autore dell’articolo è malissimo informato sulla sociolinguistica dell’esperanto.
L’ultimo paragrafo dell’articolo sotto esame (per una visione d’insieme, si veda più sotto)
Notate anche quel “ancora”: come dire, sono proprio dei mentecatti che non hanno capito come va il mondo, “in più di un secolo non è riuscito a imporsi” e ha “studiosi e cultori”, chissà perché. Boh. Saranno scemi? Eh, sì, perché ambirebbero “ad annullare la Babele delle parlate”. A parte il fatto che chiamare le lingue ‘parlate’ è allucinante, posso dire che non c’è NESSUN esperantista che pensi di instaurare un monolinguismo mondiale esperanto. Ma nemmeno i peggiori dittatori hanno avuto idee tanto bislacche. Ah, no, qualcuno c’era. Quel georgiano che seguiva le teorie di Marr… Ops, il tale gli esperantisti li ha perseguitati. Ma guarda te che caso.
Erroraccio: Zamenhof non era un “medico polacco”. Era un ebreo. Askenazita. “Rusujano”, si definiva, cioè cittadino russo, e parliamo della Russia degli Zar. Certo, il territorio dove è nato e vissuto è polacco, e quindi è diventato un figlio della Polonia. Ma bisogna fare i necessari distinguo, vista la delicatezza del tema, e l’importanza di questa identità complessa nella genesi dell’esperanto. Ma questo ci porterebbe lontano.
Trovo in rete la prima frase dell’articolo, a firma di tale Giordano Tedoldi: “poche cose sono più misteriose dell’esperanto”. E’ la lingua più open source che esista. Si trova di tutto e di più.
Mi fermo qui. E’ la vigilia di Natale. Voglio essere buono.
Peccato che per scrivere queste panzane abbiano tolto spazio a Vera Gheno (non: “Geno”, a proposito di titoli fallaci!) e alla sua missione di alta divulgazione della lingua italiana.
La pagina intera dell’articolo, come è stata condivisa dalla Federazione Esperantista Italiana.
Sometimes students ask me how they should write the bibliography. There are so many different styles out there, what is the best choice? This is an important question, and the answer is not straightforward. Of course, the tips and tricks I give here are valid for me only. In other words: if you are not a student of mine, instead of reading random information in a blog, ask your supervisor.
Assuming you are still interested in my opinion on the matter, as many of you know, I am in favour of using LaTeX for typesetting a thesis. A thesis is a highly structured document, there are already a lot of templates you can use for free, so you focus on the content, which is what really matters. If you choose LaTeX, you will use BibTeX for the bibliography. Nowadays, there are many editors for both LaTeX and BibTeX that resembles word processors, so the learning curve for your generation is really lower than before. Moreover, if you are confident to write your thesis always with a good internet connection, you can rely on web services such as Overleaf. You can even share your thesis with me for correction from the TeX source files.
If the previous paragraph is trivial for you, you may want to know what I prefer to use within BibTeX. The answer is clear: the natbib package, with the option of plainnat style. The variety of commands in the package such as \citep{}and \citet{} will facilitate your writing enormously. The price to pay is that you will depend on the package: if you change your mind afterwards, it will cost you a lot of time. My suggestion is: try to write one section, compile and send it to me for a check. If everything is okay, you will have my green light and proceed. Younger users than me would like to start directly with BibLaTeX, which requires e-TeX to run. If this the kind of questions you are asking to yourself, most probably you do not need this blog post at all.
If you are writing your thesis with a WYSIWYG word processor, refer to the Chicago Manual of Style. For a quick look, that includes also examples of web site and social media content, check this section which exemplifies the Author-Date system. More extensive information is in Chapter 15.
Last but not least, you may have to deal with references in many languages, written with a Latinate alphabet (e.g. Italian, Esperanto) or not (e.g. Russian). The first word of advice is: be consistent in the single entry. For example, if the entry is in Italian, write (acd) instead of (ed) for an edited book, and so on. In other words, avoid language salads in the bibliography. If the entry is multilingual, you may use such a solution: (ed / red / acd) if the edited book is in English, Esperanto and Italian — such as one of my publications.
Another word of advice: always refer to the version you actually used; if you consulted the Italian version of the Cours de linguistique générale, don’t insert the French entry of 1916, but the Italian version. Translations are not neutral, an edition can be better than another (in this specific case, the edition by Tullio De Mauro is highly appreciated even in France). If you want to mention that there is a version in another language, put such information at the end of the entry, something like “German version published in 1970” of the classic book in interlinguistics Le lingue inventate by Alessandro Bausani, or “German version Bausani 1970” if you insert that entry in your bibliography too.
Remember: in case of doubt, ask me! Don’t underestimate the time and effort in preparing your bibliography, and — most importantly — don’t leave it at the end of your thesis. Prepare it step by step, during your writing. When you are tired or blocked, polishing your bibliography t is a form of meditation on your work.
Update (2020-01-09): one of the most used styles is APA. Even if you do not want to use it, the tips of the Student Title Page Guide are valid in general and therefore I recommend them.
Pubblicato poco fa su Facebook e ripubblicato qui a futura memoria.
Ci sono incontri casuali che cambiano la vita. Ma ci sono anche incontri programmati che vale la pena raccontare. Oggi per me è c’è stato un incontro di questi ultimi. Qualche tempo fa ero ad Amsterdam, e i colleghi di italianistica mi avvisano, molto carinamente come sempre, che sta per arrivare Claudio Magris, un occasione della traduzione in neerlandese (fatta da una bravissima collega) del romanzo del nostro, Non luogo a procedere. Ho così l’occasione di incontrare Claudio Magris di persona. Dico di persona perché gli autori di letteratura importanti in un certo senso li incontri già leggendo le loro opere. Soprattutto in un’epoca in cui non c’erano social a darti l’illusione di conoscere davvero persone che non hai mai incontrato, di cui non hai mai sentito la voce dal vivo. Ma sto divagando. Scusate. Lo so. Un post troppo lungo. Perderò lettori. Amen.
Mi presento al collega e mi chiede se sono un italianista, supposizione ragionevole, visto che ero con i colleghi di italianistica. Dico collega perché Magris è professore di germanistica all’Università di Trieste (non so se ha il titolo di professore emerito, e avrei dovuto scrivere ‘è stato’, ma questo è un dettaglio che possiamo trascurare). Gli dico che ad Amsterdam mi occupo di esperanto, con un po’ di timore, perché non sai mai la reazione dei colleghi, in genere dicono qualcosa di superficialmente sbagliatissimo e non so mai se tacere e lasciar correre, o garbatamente dire qualcosa di informativo. No, Magris mi dice che c’erano piani di tradurre in esperanto Danubio, il suo capolavoro, già negli anni Ottanta — per la cronaca, c’è una menzione laterale dell’esperanto come metafora, perché definisce la traduzione un esperantosamizdat. Poi il progetto si era perso via, indistinto, portato via dal fiume del tempo.
Poco dopo un amico esperantista, traduttore professionista, cita Magris in un post su Facebook, per caso. In una discussione che ne segue su Magris e l’esperanto (tipico tema di un discorso feisbuccaro esperantista: esperanto e X) dico che mi piacerebbe molto far tradurre Non luogo a procedere, il suo ultimo, difficile, romanzo, perché è una sfida traduttiva importante e ha un messaggio molto interessante per il pubblico esperantofono. Non posso farlo io perché so cosa vuol dire in termini di tempo e impegno. Ci metto la mia faccia accademica con una breve prefazione per spiegare come mai mi caccio nei guai da solo (da un punto di vista del calcolo accademico, questa faticaccia vale zero virgola, quindi se fossi utilitarista avrei dovuto lasciar perdere).
Mi risponde l’amico Carlo Minnaja: la traduzione la faccio io, tu la rivedi e ti occupi del resto. L’obiettivo era avere il volume durante il congresso italiano di esperanto a Trieste, e avevo promesso all’autore di dargli personalmente la sua copia in mano. Oggi ho mantenuto la promessa. Grazie anche e soprattutto a Carlo, che potete vedere nella foto.
( Per chi non sapesse chi è Claudio Magris: uno scrittore triestino, in lingua italiana, di rilevanza mondiale, nel senso di Weltliteratur. Leggetevi Wikipedia. Anche Carlo Minnaja è un personaggio rilevante nella cultura italiana, oltre che in quella esperanto. C’è una pagina di Wikipedia a lui dedicata, per gli interessati. )
Ik heb nooit gezegd dat het einde van het kapitalisme is aangebroken. Ik zei dat het kapitalisme in deze vorm niet duurzaam is voor de planeet en dat het Esperanto een rol kan spelen bij de hervorming ervan.
Maar het is waar dat ik denk dat de Esperanto-beweging in een crisis verkeert en tegelijkertijd zijn er meer Esperanto-sprekers buiten de Esperanto-beweging. Dit is een paradox.
“Estas intervjuita ankaŭ profesoro Federico Gobbo ĉe la Universitato de Amsterdamo, kiu atentigas ke dum la organizita movado krizas kaj membronombroj falas, Esperanto disvastiĝas en interreto.”
Banala, ĉu ne? Fakte mi diris multe pli.
Unue. Mi diris, ke ĉiuj sociaj movadoj krizas ĉar homoj ne pretas pagi kotizojn se ne klaras la servoj, kaj multon oni rekte povas pluki interrete senpage. Esperanto ne estas escepto.
Due. Financa krizo de UEA (pri la graveco, oni povus debati) ne signifas aŭtomate krizon de Esperanto. La lingvo vivas nova printempon, ĉar Esperanto ĉiam altiris homojn apartenantajn al socia avangardo, nome, homoj kiuj volas plibonigi la mondon nun, ne atendante la postvivon (ni ne debatu ĝian ekziston…).
Mi raportis la ekzemplon de la tria UK en Dresdeno, kiam fondiĝis la internacia movado por vegetaranismo: en 1908, absoluta novaĵo. Nun la defio de Esperanto estas ludi rolon en la necesa transformo de kapitalismo en io kongrua kun la pluvivo de la planedo, ĉar en la aktuala formo kapitalismo ne povas daŭre funkcii. Justa lingvo, justa ekonomio.
Alia granda novaĵojen mia retejo federicogobbo.name! La dua nova subretejo pretas: post la unua, dediĉiita al la komikso Bonvenon!, aperas nun la dua, kiu prias la lernolibron Amikaro:
Domani è il 26 giugno e un alcuni tra i miei affezionati tradizionalmente si fanno sentire per fare gli auguri per l’anniversario di matrimonio.
Per farla breve, non fatelo.
( Fermatevi qui. Abbiamo superato i 200 caratteri. La vostra soglia dell’attenzione è superata. Andate altrove.)
Ho appena cambiato il mio status matrimoniale nella verità attuale: è complicato.
Difatti, io e Francesca continuiamo ad avere un qualche tipo di relazione e continueremo ad averla, perché abbiamo due figli e continuiamo ad esserne i genitori. Ma questo è quanto. Nulla di più, nulla di meno.
C’è una bella parola olandese per descrivere una situazione che, come ho fatto notare ai miei figli, è la norma: i compagni di scuola con genitori che stanno insieme sono una minoranza, e quindi eccoci qui, siamo diventati normali.
Per descrivere una situazione che, come ho fatto notare ai miei figli, è la norma (visto che i compagni di scuola con genitori che stanno insieme sono una minoranza, quindi eccoci qui siamo diventati normali) c’è una bella parola olandese che ho imparato di recente: co-ouderschap.
In italiano sembra esista il corrispondente ‘co-genitorialità’. Finora ho solo sentito co-parenting, come in inglese, ma forse questa è solo la solita anglofilia provinciale dei milanesi. Chissà se in esperanto kungepatreco è abbastanza trasparente, non ne ho mai sentito parlare. Se lo proponessi come traduzione, probabilmente verrebbe discusso con i soliti noiosi pro e contro dai soliti quattro esperantofoni che non ne sanno un fico secco, di cosa vuol dire esserci in mezzo, tanto per dirne una, e che hanno molto, troppo tempo libero.
( Scusate, la solita digressione del linguista. Con una puntina acida. Tentazione quasi irresistibile. Torno al senso di questo post.)
( Sempre che un senso questo post ce l’abbia. )
E ora che cosa succede?
Da circa un mese vivo nella casa numero dieci: le prime due a Padova, dove sono nato; altre due a Monza, dove ho passato l’adolescenza; ne conto tre ad Amsterdam, la città che mi ha accolto; ne conto mezza, ma facciamo una a Torino, la città della mia Alma Mater; e infine tre a Milano, la città dove sono andato a vivere da solo per scelta (Casa 5), dove poi ho contribuito a formare una famiglia (Casa 6) ma dove non ho mai lavorato come avrei meritato. E infine torno a vivere da solo (Casa 10), stavolta non per scelta.
A Milano sono nati e cresciuti i miei figli, ed è qui dove, nell’ultimo mese sono tornato a vivere da singolo, mio malgrado, con l’aiuto di un amico, che rimarrà rigorosamente anonimo. Se tutto va bene, sarò presto in Casa 11. Sempre a Milano, perché la co-genitorialità (a me piace chiamarla così) è una cosa seria. L’ideale sarebbe che i figli vivessero in una casa neutrale e i genitori stessero in pied-à-terre alternandosi. Ma naturalmente non siamo nella neutrale Olanda. I ragazzi stanno con la loro madre, e io cerco di stargli vicino come riesco.
Questo non vuol dire che non sia pronto a fare armi e bagagli, come si dice, e tot ziens al cosiddetto Bel Paese che non sembra apprezzarmi, almeno non professionalmente. Un pied-à-terre a Milano, finché i figli ci vivranno, lo terrò. Come dicevo, co-parenting is a serious thing. Kungepatreco estas serioza afero. (Scusate, l’ho fatto di nuovo.)
Nella foto, dal vetro virtuale rotto, la mia ex scrivania in Casa 6, recentemente messa a puntino per avere uno spazio di lavoro. Non ho avuto molto tempo di godermela.
PS
Se volete commentare questo post fatelo in privato, grazie. Ogni commento a questo posto che secondo il mio personalissimo metro di giudizio io ritenga non gradito verrà cancellato senza spiegazione. Ci sono tanti modi per sentirmi o vedermi senza commentare pubblicamente.
UvA students sometimes ask me for guidance in writing a tutorial, an assignment, or a thesis. Unfortunately, there is (still?) no comprehensive guide for helping students in properly formatting their academic papers, documents, tutorials, theses, and the like.
Most of my students come from the Faculty of Humanities, but there are notable exceptions, some of them being enrolled in MA programmes in Logic, Artificial Intelligence or some branch of Computer Science or Informatics. I hesitated a lot before to embark in such an endeavour, because of this immense variety — which I like a lot, actually, as the mindset of a student in cognitive science can be very different from a student in Modern Greek (no value is involved here, just to be very explicit).
First, there is one general advice I want to give to my students — and I underline the possessive ‘my’: what follows is valid for me and me only, so, colleagues can think and behave differently from me — that is, please read carefully the official UvA English Style Guide, before anything else (ironically enough, the web page is in Dutch; if you cannot understand the content, which is really basic, shame on you, keep calm and click the downward arrow, a PDF will be downloaded for you; open it). Although it is not addressed to students, it solves a lot of doubt, first of all, British vs American spelling.
Second, ask yourself if you want to write your academic document with a word processor such as LibreOffice or Microsoft Word, or get yourself into the magic world of LaTeX. I accept to receive your documents, dear students, in four formats: Open Document, Word, or (Xe)(La)TeX, and, finally, PDF. I prefer LaTeX because LaTeX is not only beauty in typography but it disciplines your mind so to prepare better content. Moreover, it is easy to find UvA templates in LaTeX, for example, the ILLC Dissertation Style (note that my affiliation is not there but in the ACLC) or the template for Ph.D. thesis for the GSAS (same as above). Finally, I found a template for Master of Logic Theses.
I kindly invite you to spend 10 minutes of your time browsing the web pages above, even if you do not know LaTeX and you do not plan to learn it. In such an unfortunate case, open the exemplar PDFs you’ll find there, skip the explanations, which are Dark Magic for you. You can still get inspired by them.
If you do not have what does to mean to write a thesis, a scriptie, as you only did a profielwerkstuk in high school before, you may profit in downloading already accepted BA and MA theses. Please open this UvA web page, which provides two links to you: the first one points to the database of all accepted theses in Dutch Universities, the second one to the subset of theses accepted at the UvA. Web interface is not exactly cool, but they do their job.
I hope you will appreciate this blog post, which is not an April Fools’ Day joke, but it is for real. And now you go!
PS In case of panic, your red button is your UvA Study Advisor(s): ask for an appointment and get advised.